Strutturisti e Restauratori: Sicurezza Vs Conservazione? -1 puntata

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di Antonio bORRI
Nota: Il presente contributo è stato presentato in occasione del XVI congresso ANIDIS svoltosi presso l’Università degli studi di l’Aquila nel mese di settembre 2015 e successivamente pubblicato su recupero e conservazione 127: MAGAZINE ONLINE settembre 2015, De Lettera Editore, Milano e Structural n.199 – ottobre, De Lettera Editore,Milano.
RIASSUNTO
Nella presente relazione sono presentate alcune considerazioni sulle problematiche che nascono quando si vengono a confrontare le competenze di strutturisti, restauratori e conservatori. Alla fine sono elencati alcuni contributi di ricerca sperimentale, che, nel filone del “consolidamento consapevole” (delle diverse esigenze) sono stati indirizzati verso il non facile obiettivo di coniugare sicurezza e conservazione.
AbSTRACT
In this report are presented some considerations on the problem tha arise when you comparing the sklls of structural engineers, restorers and conservators, which, in the vein of “consolidation aware” (of the different needs) have been directed towards the difficult goal of combing safety and conservation.

RISCHIO SISMICO PER IL PATRIMONIO CULTURALE, TRA PERCEZIONE E REALTÀ
Il nostro Paese, ricchissimo di storia e di beni culturali, spesso è purtroppo colpito da terremoti che hanno effetti devastanti sugli edifici e su quanto in essi contenuto, e solo in occasione di tali avvenimenti tutti si ricordano o si accorgono delle gravi vulnerabilità esistenti.
Così, nel passato anche recente, insieme a lutti, danni o crolli di intere costruzioni, si sono avute anche gravi perdite di memorie storiche. Basti ricordare gli ultimi eventi sismici (figure 1 e 2): da Assisi (1997) a L’Aquila (2009), sino agli eventi emiliani (2012).
Tali esperienze dovrebbero ribadire con sempre maggiore fermezza la necessità di procedere decisamente nella direzione di una prevenzione ben mirata, con l’obiettivo di tutelare almeno i beni culturali più importanti nei confronti delle possibili azioni sismiche.
L’approccio delle attuali normative in tema di interventi sul patrimonio culturale appare però rivolto principalmente verso l’obiettivo di limitare gli interventi strutturali, privilegiando gli aspetti legati alla conservazione e così, per certi versi, sembra non tenere nella giusta considerazione le moltissime perdite di importanti manufatti subìte negli eventi sismici.
In particolare, l’introduzione, senza porre un limite inferiore, della “vita nominale ridotta” (periodo in cui la costruzione può essere considerata “sicura” dal punto di vista probabilistico) può fornire sensazioni di sicurezza che, in realtà, sono del tutto infondate. Infatti, basta guardarsi indietro per comprendere che, contrariamente alla percezione comune, frutto di quel fenomeno psicologico che prende il nome di “negazione collettiva”, il sisma purtroppo è un evento tutt’altro che raro.
Inerzie legate a tale falsa sensazione non appaiono comunque giustificabili in alcun modo per l’Organo centrale deputato alla tutela dei beni culturali sull’intero territorio nazionale, ovvero il MiBACT, i cui comitati scientifici, ma ovviamente non solo, sanno bene che la probabilità di perdere nel giro pochi anni un elevato numero di costruzioni (chiese, palazzi, etc) e di manufatti artistici (statue, affreschi, etc) corrisponde alla (quasi) assoluta certezza.  
D’altra parte, anche senza sapere nulla di calcolo delle probabilità, basta ricordarsi che negli ultimi trenta anni l’Italia è stata colpita da circa una trentina di terremoti con magnitudo pari o superiore a 5.0. Quelli che hanno causato i maggiori danni, e in alcuni casi anche molte vittime, sono quelli di Potenza e della Sicilia sud-orientale del 1990, i terremoti dell’Umbria – Marche del 1997, il terremoto dell’Appennino calabro-lucano del 1998, gli eventi di Palermo e del Molise del 2002, i terremoti dell’Abruzzo del 2009 e gli eventi sismici dell’Emilia Romagna del 2012. L’attesa di un evento distruttivo ogni dieci anni rappresenta quindi una stima ottimistica della realtà e oltre alle perdite irreparabili di beni culturali, i costi che si devono sostenere a seguito di un sisma di queste intensità superano di gran lunga quelli dei possibili interventi preventivi.
Se è irrinunciabile il concetto, ormai acquisito nel campo dei beni culturali, che tutti i beni sono paritariamente importanti, è pur vero che alcuni di essi sono soggetti a rischi più elevati e quindi l’approccio da seguire dovrebbe essere quello di uno screening rivolto ad individuare le situazioni più critiche, così da identificare le priorità sia per gli edifici che per i beni museali, facendo seguire poi concrete e mirate politiche di prevenzione e tutela, attuando gli interventi per le situazioni a rischio maggiore.
Spesso invece si vede liquidare il problema con osservazioni del tipo: “ma se sta in piedi da centinaia di anni, perché dovrebbe avere dei problemi proprio adesso?”.
Se un tale induttivismo, in generale, è criticabile perché (seguendo Karl Popper) non si può giustificare una conclusione partendo dall’analisi di un insieme finito di casi particolari, lo è ancor più in questo caso, visto che “se nessun numero di esempi confermanti può giustificare la verità di una proposizione, un solo esempio contrario consente invece di dimostrarne la falsità”. E nei sismi anche recenti, i crolli di edifici antichi e antichissimi non sono certo stati pochi…
Peraltro, Antonino Giuffrè, che ben conosceva il comportamento delle costruzioni storiche, aveva scelto con cura le sue parole, quando scriveva che «… edifici ben progettati e ben mantenuti hanno visto e provato, e più volte, terremoti di intensità anche elevata e sono ancora lì a testimoniare la loro capacità di resistere…».
In quella frase, pienamente condivisibile, tutte le parole sono importanti e non se ne possono prendere (strumentalmente) solo alcune, dimenticandosi delle altre. Quei requisiti richiamati nel testo, ovvero la bontà del progetto e della sua realizzazione, il collaudo (da parte dei sismi passati) della costruzione e la sua manutenzione nel tempo, sono tutti fondamentali per poter confidare sulle capacità di resistere di una costruzione storica.
Perciò, evidentemente, quanto detto non vale per le costruzioni storiche che non rispondono a quei requisiti, quelle cioè che non sono state ben progettate, né ben realizzate, o per carenze nei materiali impiegati, o per mancanza di rispetto delle cosiddette regole dell’arte. In questi casi, gli eventi sismici che superano una determinata intensità fanno emergere in tutta la loro gravità le vulnerabilità meccaniche esistenti. Si deve poi osservare che molte costruzioni, pur essendo antiche, in realtà non hanno mai provato nella loro vita alcun sisma di elevata intensità e quindi il solo fatto che abbiano centinaia di anni non fornisce alcuna garanzia di un loro buon comportamento meccanico ad eventuali azioni dinamiche.
A L’Aquila, ad esempio, molti degli edifici crollati nell’ultimo sisma erano stati costruiti (o ricostruiti) dopo il terremoto del 1703 e quindi non avevano mai provato intensità come quella del 2009. Situazione analoga per tante costruzioni crollate nel 2012 in Emilia, realizzate in epoca successiva al sisma del 1570.
Così, sia in Abruzzo che in Emilia, molte costruzioni in muratura, pur avendo centinaia di anni sono state colpite per la prima volta da azioni sismiche di quella intensità ed essendo prive di collegamenti efficaci, realizzate con materiali di scarsa qualità meccanica e/o non rispettose delle regole dell’arte, non hanno resistito.
C’è un’altra condizione, forse meno nota, che Giuffrè aveva posto per la riconoscibilità della “buona costruzione”: la verifica della non avvenuta alterazione del suo schema strutturale iniziale, che invece poteva essere stata fatta nel tempo per motivi funzionali o di consolidamento. Per quelle costruzioni, quindi, nelle quali sono stati modificati alcuni elementi strutturali (sostituzione di coperture e solai, apertura di vani, introduzione di elementi in c.a., etc) cade quella presunzione di buon comportamento derivante dal test dei terremoti precedenti, trovandosi di fronte ad organismi modificati, che quei sismi, in realtà, non li hanno mai provati. Tra le possibili alterazioni strutturali che possono essere avvenute nel tempo occorre poi considerare sia il degrado che i danni avvenuti per sismi precedenti, che non sono stati adeguatamente ripristinati. Ciò può portare ad una riduzione anche rilevante di capacità, proprio per l’accumulo dei danni. E’ la legge inesorabile del mutamento (panta rei): “tutto si muove e nulla sta fermo…”, legge che evidentemente riguarda anche le costruzioni storiche e che fa cadere, ancora una volta, la presunzione della validità del principio:
“edificio antico” = “buona costruzione”. Invece, sull’esperienza di quanto è accaduto negli ultimi terremoti e pensando ad altre zone italiane che, da tempo, non sono state interessate da eventi importanti, si può comprendere come non abbia senso considerare come prova di “robustezza” il solo fatto che una costruzione abbia secoli di vita e perciò è davvero poco prudente negare a priori la necessità di interventi di consolidamento.
E’ invece necessario conoscere bene a fondo le sue vulnerabilità e la sua reale situazione strutturale, e su questa conoscenza basare ogni decisione.
DIALOGO TRA STRUTTURISTI, RESTAURATORI E CONSERVATORI …
Considerando il caso più generale di una costruzione storica contenente anche beni artistici (statue, affreschi, etc) in un progetto di prevenzione sismica o in un intervento a seguito di eventi sismici vengono a confrontarsi intorno allo stesso tavolo (quello, appunto, degli interventi da attuare) ingegneri strutturisti (ma anche impiantisti) architetti, restauratori e storici dell’arte. Il tutto, naturalmente, sotto il controllo dell’Organo che ha, per legge, la responsabilità della tutela di tali manufatti (MiBACT, direttamente o attraverso le locali Soprintendenze).
E’ ovvio che, per il pieno raggiungimento dell’obiettivo suddetto, ovvero la tutela di questi manufatti è fondamentale un rapporto positivo e costruttivo tra le diverse competenze coinvolte.
Al di là delle problematiche particolari e di singoli casi specifici, il buon esito di questo rapporto appare legato alla condizione che tutti, seppure con livelli di approfondimento diversi, conoscano adeguatamente le tematiche del restauro e del consolidamento, così da potersi confrontare con una corretta comprensione e valutazione delle diverse argomentazioni.
Purtroppo, la realtà è complessa e variegata (per usare un eufemismo) e all’origine dei problemi si potrebbero mettere le carenze dei percorsi formativi delle Università. Si pensi alla mancanza di corsi di Restauro nella preparazione degli ingegneri, come alle lacune, nel percorso degli architetti, sulle tematiche sismiche, sul comportamento meccanico delle murature storiche e sul consolidamento strutturale. Tutto ciò ha portato, di fatto, ad una situazione di “cultural divide” non facilmente superabile. A ciò si aggiunge il fatto che l’aggiornamento dei funzionari negli Enti preposti alla tutela (molti dei quali, peraltro, ormai in vista della pensione) è spesso lasciato all’iniziativa personale dei singoli…. In presenza di manufatti artistici di rilievo entra poi in campo anche la competenza di storici dell’arte, critici, etc. e qui non si può sottacere che, se il dialogo tra ingegneri e architetti può avvalersi, almeno in parte, di riferimenti comuni (la formazione scientifica di base, la Statica e la Scienza delle Costruzioni) con gli storici dell’arte, che peraltro spesso rivestono importanti ruoli decisionali negli Organi preposti alla tutela dei beni in questione, può risultare oggettivamente difficile, per uno strutturista, comunicare in modo efficace quelle esigenze che risiedono sul terreno delle leggi della fisica materica (“barriera di Newton”).
Il problema è senza dubbio di tipo culturale: la fede che gli ingegneri ripongono nei numeri e nei modelli fisico-matematici, fede che deriva da una specifica formazione, e forse, prima ancora, da una predisposizione genetica di chi sceglie questa strada, mal si concilia con approcci di tipo qualitativo. Occorre ricordare tuttavia che le responsabilità per la sicurezza strutturale ricadono principalmente proprio sull’ingegnere.
Normalmente il buon senso e la buona volontà rimediano a tutto e viene trovata la soluzione più idonea, rappresentata in genere dal punto di equilibrio tra le esigenze di un “consolidamento consapevole” (delle problematiche della conser-

1 E’ questo anche l’anno in cui Roberto Di Stefano afferma che “il consolidamento costituisce uno degli interventi fondamentali di quell’insieme di operazioni che prendono il nome di “Restauro dei monumenti” … finalizzate all’obiettivo della conservazione. Pertanto, il consolidamento è una parte del restauro e non qualcosa di diverso o addirittura di alternativo… “.
vazione) e quelle di un “restauro consapevole” (delle problematiche della sicurezza). Nel passato però non sempre è stato così (e talvolta non lo è neppure adesso) e nel confronto tra le diverse posizioni, a seconda del periodo storico e delle diverse posizioni di forza, si è assistito di fatto ad un’alternanza nel prevalere dell’uno o dell’altro punto di vista, con situazioni e soluzioni disomogenee nel tempo e sul territorio, basate su argomentazioni non sempre condivisibili e con risultati talvolta nefasti proprio per quella tutela posta, da tutti, come obiettivo primario. Rimandando a lavori lucidi ed approfonditi come quelli di Salvatore D’Agostino (D’Agostino, 2006) e Carlo Blasi (Blasi, 2014) circa le mutevoli vicende nei rapporti tra tutela dei beni culturali e normativa tecnica, qui ci si limiterà ad osservare una sostanziale inversione a 180° nei rapporti tra strutturisti e conservatori. Infatti, se negli anni successivi ai sismi del Friuli e dell’Irpinia, usando il “grimaldello” delle normative tecniche, sono stati imposti interventi strutturali invasivi e inadeguati (e di questi si tratterà al punto successivo) da tempo si assiste ad episodi di segno contrario: limitazioni, eccessive alle possibilità di intervento strutturale o, in alcuni casi (per fortuna limitati) “proposizioni” (= imposizioni) da parte di Soprintendenze di soluzioni tecniche diverse da quelle del progettista strutturale, fornite senza avere la stessa conoscenza del caso in esame e senza assumersi poi alcuna responsabilità di quanto “proposto”.
DANNI DA NORMATIVA
Non si può parlare di problematiche di rapporti tra strutturisti e conservatori senza riconoscere anzitutto i gravi errori fatti dai primi, in un passato non poi così lontano, quando, sopra le carenze e le vulnerabilità originarie che già affliggevano le costruzioni murarie storiche sono stato messi, come macigni, interventi di consolidamento pesanti ed invasivi, non rispettosi del comportamento delle costruzioni in muratura, né delle loro effettive capacità strutturali. E’ il caso delle sistematiche sostituzioni di solai e coperture lignee con rigidi e massicci elementi in latero-cemento, motivate spesso solo dalle necessità di doversi adattare alle ipotesi di un metodo di calcolo strutturale (POR). In queste situazioni, come si è visto nei terremoti recenti, i cordoli sommitali in c.a., quelli in breccia o gli innesti a coda di rondine che venivano realizzati per collegare tra loro i diversi elementi, alla prova dei fatti hanno collegato ben poco, risultando inadeguati e nefasti.
Solo quando le murature verticali venivano impacchettate tra due paretine in c.a., come generalmente è stato fatto nel Friuli dopo il sisma del 1976, questi interventi hanno avuto efficacia, a scapito però della conservazione delle caratteristiche architettoniche e materiche di quelle costruzioni murarie.
Nelle altre regioni italiane, dove in modo ampio e diffuso è stata effettuata la sola sostituzione di coperture e solai lignei con quelli in c.a., sono stati introdotti elementi pesanti, rigidi e mal collegati con le murature esistenti, dando origine a situazioni di grave vulnerabilità. Così, là dove c’è stato un sisma importante e le murature esistenti non avevano capacità meccaniche adeguate, questi elementi hanno generato dissesti e crolli e la stessa cosa purtroppo accadrà, nei sismi futuri, per gli edifici su cui è stato fatto questo tipo di intervento. Emblematico, a dimostrazione di quanto poco si conoscesse in quel tempo delle murature, e devastante, per le conseguenze che si sono avute successivamente, il caso dei cordoli in breccia, “richiesti” fino a poco tempo fa da regolamenti o dagli organi preposti al controllo degli interventi. Questi, che si potrebbero chiamare “danni da normativa”, in quanto derivanti da tecniche imposte da normative sia nazionali che regionali (spesso con veri e propri protocolli operativi obbligatori e inderogabili) hanno interessato, almeno per un certo periodo, anche numerosi casi di beni vincolati. Negli anni ’80 infatti, nonostante l’indiscussa competenza del Ministero per i BBCC sui beni soggetti a vincolo (riaffermata nella legge del 1974) i quasi 3.500 morti degli eventi sismici tra il 1976 e il 1980 hanno portato di fatto, in nome di una malintesa ricerca della sicurezza, a consentire interventi invasivi, dimostratisi poi spesso, in molti casi, inappropriati e peggiorativi.
D’altra parte, dal 1981 la suddivisione delle categorie d’intervento sugli edifici esistenti ai fini normativi era tra “adeguamento antisismico” e “interventi di modesta entità”. Quindi, se l’intervento non era di modesta entità, la richiesta, anche per edifici vincolati, era spesso quella di rispondere ai requisiti dell’adeguamento.
Solo nel 1986 viene introdotto in una normativa il caso di “miglioramento sismico”.
Si comprende bene perciò quanto scriveva Franco Braga (che già si era adoperato con Giuffrè, Benvenuto, Di Pasquale e pochi, altri proprio in quella direzione) in un lavoro dei primi anni ’90: “I terremoti sono perniciosi per il patrimonio monumentale italiano, non tanto per l’eccezionalità dei danni prodotti, quanto per il numero e il tipo di interventi di riparazione e di adeguamento antisismico che ad essi hanno fatto seguito..:” A questa stessa categoria di “danni da normativa” si possono ascrivere anche quelli derivanti dall’impiego diffuso e indiscriminato della tecnica delle iniezioni di boiacca cementizia. In questo senso la circolare n. 21745 del 1981 (tab. 1) rappresenta un vera e propria “istigazione” a eseguire questa tecnica: nel caso di muratura di pietrame in cattive condizioni l’incremento di resistenza a taglio ottenibile grazie alle iniezioni sarebbe stata (secondo quella circolare) addirittura del 550%!
La realtà, come si è visto in seguito, è ben diversa: ad un aumento di resistenza di entità assai inferiore (anzi, talvolta inesistente) corrisponde comunque sempre un incremento di rigidezza della parete muraria, che provoca spesso effetti negativi.
Si deve osservare però che le problematiche e gli insuccessi di quella tecnica furono dovuti, in quel periodo, anche alla assoluta mancanza di direttive o prescrizioni sulle metodologia di controllo in cantiere, sia delle operazioni, sia dell’avvenuto miglioramento delle caratteristiche meccaniche nei quali erano stati sostituiti solai e coperture lignee con elementi in latero-cemento.

L’impiego di alcuni “nuovi” materiali, per i quali molto, per non dire tutto, appare affidato alla sola fase progettuale oppure a controlli che riguardano solo i materiali e non il sistema … I danni maggiori sono stati fatti con queste tecniche all’edilizia tradizionale, ma numerosi sono anche i casi di costruzioni monumentali riempite di cemento.
D’altra parte, la normativa tecnica di quel periodo (Documento Tecnico 2 del Friuli del 1977 e D.M. 30.07.1981 per l’Irpinia) indicava come interventi “suggeriti” (= obbligatori):
• iniezioni di miscele leganti su pareti murarie;
• applicazione di lastre in cemento armato o di reti metalliche elettrosaldate su pareti murarie;
• inserimento di pilastrini in cemento armato o metallici in breccia nella muratura;
• tirantature orizzontali e verticali su pareti murarie;
• gli archi e le volte interessati da gravi dissesti e se realizzati con muratura di non buona consistenza e fattura, devono essere eliminati. Il rinforzo può invece essere conseguito costruendo in aderenza a quelli esistenti archi e volte in cemento armato;
• qualora i solai siano avvallati e comunque deteriorati, sì da non possedere adeguata rigidezza nel proprio piano, essi devono essere sostituiti con solai in cemento armato ordinario o precompresso, ovvero in acciaio;
• le scale in muratura a sbalzo, cioè quelle aventi gli scalini o la sottostruttura incastrati nei muri di gabbia da un lato e liberi d’altro, devono essere di regola sostituite con scale in cemento armato o in acciaio.
Spesso, alle problematiche insorte per applicazioni di tecniche di consolidamento errate o inadeguate si aggiungevano gli interventi di adeguamento o miglioramento delle fondazioni, consistenti, in troppi casi, da inutili e talvolta dannose “sventagliate” di micropali … Nessuna meraviglia che sulla scia emotiva dei lutti e delle perdite di quel periodo, in nome delle “esigenze della sicurezza”, anche molti interventi nelle costruzioni storiche vincolate abbiano seguito tali criteri.
A dire il vero, anche prima degli eventi sismici del Friuli e dell’Irpinia problemi di interventi non congrui con le murature storiche ce ne erano stati, avvertiti in quel periodo con una sensibilità diversa da quella odierna.
Ad esempio, nell’immediato dopoguerra ci sono stati numerosi interventi con pilastri e travi in c.a. all’interno di chiese, e non hanno sollevato obiezioni più di tanto da parte dei restauratori del tempo. Ma proprio in alcuni di questi casi si è cominciato a comprendere come il connubio c.a. – murature storiche non funzionava, a prescindere dai problemi sismici o di conservazione.

Il caso della Chiesa di S. Lorenzo Maggiore a Napoli è emblematico, con interventi che si sono succeduti nel tempo, prima con pilastri in c.a. con l’intento di rimediare ai dissesti originari, poi con nuovi pilastri in c.a. per rimediare ai dissesti derivanti dall’introduzione dei precedenti pilastri in c.a., inserendo infine un diffuso “reticolo cementato” (perfori armati) e impacchettando le murature con “congrui spessori di gunite armata su entrambi i paramenti, collegati da tiranti cementati” …..
Oggi, acquisita una maggiore sensibilità verso la tutela e la conservazione, certo non si penserebbe più a introdurre elementi in c.a. in una chiesa…. E’ anche vero però che tale sensibilità è molto soggettiva, e variabile, da Soprintendenza a Soprintendenza, e in taluni casi sembra essere condizionata dalle situazioni locali.Ci si riferisce, in particolare, alle voci (ben fondate) di un progetto di intervento di questo tipo (nuovi pilastri in c.a. in sostituzione di quelli murari originari) in una importante Chiesa dell’Aquila, progetto che, pur cozzando contro sensibilità e conoscenze ormai acquisite e pur essendo in chiaro contrasto con i criteri generali dettati dal MiBACT, avrebbe ottenuto il parere favorevole delle locali competenti Autorità…. L’unica speranza, non solo per la conservazione, ma anche per l’imprevedibile comportamento meccanico di quell’ibrido “murature fragili – pilastri in c.a.” che ne scaturirebbe, è che qualcuno ci ripensi ….. Giusto per dare un’idea della variabilità delle soluzioni tecniche accettate in un passato recente da alcune Soprintendenze, basti pensare alla diversità di approccio per alcuni interventi di pochi anni fa sugli elementi verticali, come: 1) quello effettuato sui pilastri del Duomo di Pavia impiegando 1.087 martinetti piatti, inseriti, previo intaglio, tra i conci; 2) quello di “smontaggio” (= demolizione) e ricostruzione di tutti i pilastri murari nella Cat- Si passa così da approcci nei quali l’attenzione tedrale di Noto; 3) quello nell’intervento (archi- è completamente rivolta agli aspetti strutturali, tettonicamente stupendo) per il Tempio-Duomo a soluzioni che appaiono orientate esclusivadi Pozzuoli – Rione Terra, con simulacri vitrei al mente verso gli aspetti estetici…. posto delle colonne mancanti.

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