di Natacha FABBRI
ABSTRACT
Questa relazione si propone di prendere in esame alcune delle principali linee interpretative che hanno contraddistinto il rapporto tra architettura e musica (intesa come sia come suono sia come proporzioni numeriche) nel Novecento. Come verrà illustrato, a fianco del tentativo di fondare il gemellaggio tra architettura e musica nella presenza di precisi rapporti numerici – che, con alterna fortuna, continua ad animare il dibattito novecentesco – emergono altre interpretazioni.
Intendo innanzitutto esaminare la proposta avanzata in occasione della IX Triennale di Milano del 1951 di recuperare nella costruzione degli edifici le proporzioni matematiche della sezione aurea e dei rapporti consonanti. Al convegno De divina proporzione (tenutosi nell’ambito della Triennale) parteciparono non solo Le Corbusier – che amava riproporre nelle sue creazioni la proporzione aurea così come i rapporti presenti nel Pantheon romano e nell’uomo vitruviano (nell’opera Le Modulor. Essai sur une mesure harmonique, 1947) – ma anche Rudolf Wittkower, autore dei fondamentali Architectural Principles in the Age of Humanism (1949), e James Ackerman, che sempre nel 1949 aveva pubblicato un volume sul duomo di Milano intitolato Ars sine Scientia Nihil Est. La tradizione a cui questi architetti si richiamano – che aveva attraversato gran parte del pensiero occidentale – risulta evidente camminando tra le strade di città rinascimentali quali Firenze o osservando il ritmo delle bifore e degli archi sulle facciate di alcune chiese veneziane. Dall’Architecture harmonique (1679) del musicista René Ouvrard, all’architettura come “musica ammutolita” di Goethe, le pagine di Friedrich Schelling e di Friedrich Schlegel ci offrono uno dei più chiari esempi di come l’idea della “musica pietrificata” recuperi il modello pitagorico della corrispondenza di proporzioni tra visibile e udibile e del risultante piacere intellettuale che da essa scaturisce. Vi erano però anche coloro che relegavano nella sfera della mera analogia la musicalità dell’architettura colta nelle proporzioni strutturali. Gli edifici che “cantano”, secondo Paul Valery (Eupalinos, 1921), sono quelli in grado di creare uno spazio nel quale il soggetto si immerge come fosse in uno spartito, un universo ove musica e architettura impongono alla pietra e all’aria forme intelligibili. Quasi negli stessi anni, l’idea di un universo creato dal suono e dalla vista di un edificio che delocalizza il soggetto percipiente è celebrato nelle pagine di Marcel Proust. I famosi episodi legati alla memoria involontaria non si esauriscono nel sapore della madeleine o nell’esperienza dei pavés sconnessi del cortile dell’hotel de Guermantes, ma coinvolgono anche la vista dei campanili di Martinville (La Recherche, Du côté de chez Swann) e l’ascolto della Sonata di Vinteuil (La Recherche, La Prisonnière). Questi due universi risvegliati dalla visione e dall’ascolto si intrecciano e si sovrappongono nella “voce” dei campanili descritta da Proust in un articolo comparso sul Figaro nel 1904.
Il riferimento a Proust consente di meglio contestualizzare la riflessione contemporanea sul suono pervasivo proveniente da campanili e minareti, che intrattengono con l’uomo un rapporto simile ma inverso a quello descritto da Valery. Le campane delle chiese, i canti dei muezzin che dai minareti intonano la adhan, così come la sirena che annuncia l’inizio del shabbat, tramite il suono creano uno spazio e un universo denso di significato storico e religioso che si estende sino a grandi distanze inglobando l’ascoltatore. Nei casi di città contraddistinte dalla compresenza di chiese, moschee e sinagoghe, i loro diversi suoni si intrecciano creando una sorta di reticolato e ricordando agli abitanti la presenza dell’altro in termini di coabitazione e condivisione di uno spazio. Queste ultime considerazioni introducono l’esame di un terzo genere di relazione tra architettura e suono, il quale è segnato da un lato dall’affermarsi della riproducibilità della musica e dall’altro lato dallo sviluppo di edifici deputati al “passaggio” della folla – stazioni, gallerie commerciali (oggi anche centri commerciali) – ove il suono è diffuso mediante supporti tecnologici (radio, altoparlanti, ecc.). Le riflessioni su questi temi di Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; I “Passages” di Parigi) e Theodor Ludwig Adorno (Parva aesthetica; Impiego musicale della radio; Teoria estetica), dedicati in particolare alla perdita dell’aura della composizione musicale nel momento in cui, attraverso
la possibilità della sua riproducibilità, essa viene separata dall’hic et nunc della sua esecuzione, sposta l’attenzione su un suono che è sempre connesso alla struttura architettonica ma che è però in questo caso anestetizzato nell’abitudine e nella percezione distratta della massa. Il ritorno al legame intrinseco tra edificio e suono – che costituisce il quarto genere di relazione di cui intendo parlare – è ottenuto mediante edifici intesi come corpi sonori. Da un lato si situano le creazioni dell›architettura organica: la Fallingwater di Frank Lloyd Wright, realizzata negli anni 1936-1939, crea un dialogo tra edificio e contesto naturale trasformando la struttura architettonica in un “corpo da suonare”. Nella fusione tra naturale e artificiale, l’uomo trasforma la natura in un artista: in ogni stanza si diffonde il suono creato dalla cascata, la quale è al contempo sorgente sonora ed esecutore. Dall’altro lato vi sono gli edifici “che suonano” e nei quali la sorgente sonora e l’esecutore sono però esclusivamente umani, come avviene nella struttura progettata da Peter Zumthor per il Padiglione svizzero dell’Expo di Hannover del 2000. Nel suo “Sound Box” l’attenzione per i materiali e la composizione dell’edificio è concepita in funzione dei suoni che saranno generati da coloro che vi entreranno, vi sosteranno, lo attraverseranno e vi parleranno. Se la creazione di Zumthor concepisce l’edificio come fosse la cassa armonica di uno strumento (ancorché con molte aperture verso l’esterno), le vibrazioni del Jay Pritzker Music Pavilion progettato da Frank Gehry e realizzato nel 2004 si aprono invece verso l’esterno, ma solo apparentemente tendono a dissolversi nello spazio circostante. È il suono a creare e circoscrivere lo spazio: mediante un sofisticato sistema di amplificatori, Gehry è riuscito a simulare l’acustica di una sala da concerto. In questo caso, così come in parte anche il Pavilion temporaneo realizzato da Gehry nel 2008 per la Serpentine Gallery di Londra, la struttura trasforma per mezzo del suono uno spazio che era inizialmente un passage in un luogo deputato all’ascolto della musica. La struttura del padiglione chiude circolarmente questa relazione. Vorrei infatti concludere esaminando il Philips Pavilion realizzato per l’Esposizione universale di Bruxelles del 1958 da Le Corbusier e dall’architetto e compositore Iannis Xenakis. Tale struttura era stata concepita da Le Corbusier come una composizione musicale – il Poème électronique di Edgard Varèse – racchiusa in un grande vascello, ove lo spazio fruito dai visitatori (o meglio, dagli “ascoltatori di passaggio”) si sarebbe dovuto definire in termini sonori ancor prima che visivi.